lunedì 16 marzo 2020

Nota di Lettura di Carlo Di Legge a Il Ramo più preciso del tempo

Gentile amica, qualche mia nota sul tuo Il ramo più preciso del tempo, adesso che sono riuscito a leggerlo (proprio in questi giorni sto anche leggendo l’edizione Oscar Mondadori delle Opere di Mark Strand, i cui versi hai usato per esergo: magnifico poeta!).

Costanzo Ioni invita a “riesaminare con maggiore accuratezza” (87), a rileggere, dopo averli letti, i tuoi versi. Ma era già chiaro che si trattasse soprattutto di sciogliere il piccolo enigma proposto nel titolo. Cosa è quel ramo più preciso del tempo? Alla fine, lo dici. E proponi l’analogia tra l’esistenza degli uomini e l’inverno (83).  Non che, con questo, ogni cosa si risolva, perché è vero che la scrittura (e i temi) sono complessi.
Ma esamino, allora, per sentire meglio la poesia, i titoli delle sezioni, di cui la prima, liturgia della casa: per liturgia s’intende, nel senso comune, l’insieme delle pratiche, oggi perlopiù in contesto religioso. Dunque, il tuo titolo credo indichi una serie di riflessioni in verso, che riguardano una sorta di religione domestica, per come viene spiegata nei versi a p. 8: “eterna remissione degli oggetti” e quindi “enigma  forgiato sulla materia”. Ancora domando: per le parole senza remissione – ecco: sono gli oggetti a venire rimessi, o essi rimettono a noi qualcosa? In entrambi i casi, vale la dimensione dell’enigma: dunque casa era enigma – come un mistero, che accomuna, e re-ligat – per tutti, un legame fondato su un luogo, su una forma, su cose: in qualche modo è legato alla materia, l’enigma, in qualche modo rimette il nostro debito alla materia, giacché al tempo stesso ci lega e ci affranca, ci redime, nel momento in cui comprendiamo che però non così tanto si tratta di cose materiali… nonostante, a mio avviso, questa scrittura si riveli sempre non
diretta e a multipli spessori, è abbastanza percettibile il paragone tra l’arcobaleno e l’appartenersi “nella casa:/si vive come per brillamento” (9). Bello trovare che la casa dunque fluisca: essa è pensata “in assetto di fiume” (16) e, se bisogna che mi si cerchi nel sogno (18), questa casa mi somiglierà, credo, nella stessa dimensione, sarà di sogno; “Nella vertigine domestica/c’è una topografia sottile,/una disciplina ragionata a lungo…” (25); ma non è così anche dei sogni? E così avviene che trovo le istruzioni per l’uso della casa o di ogni sua parte: esempio, come diventare finestra – aggiungerei, interpretando: basta dimorare presso quella finestra, percepirla, e si è (anche) finestra. La finestra è a sua volta noi: versione dell’esse est percipi…
Credo che, a parte la dimensione a cui la casa subito rinvia, quella dello spazio fisico, non si tratti tanto di questo quanto di uno spazio dell’anima, e quindi che questa verità sia tessuta di tempo. A ognuno il proprio incantamento, il proprio mistero, il proprio limite: casa.
La seconda sezione, rotazioni, è immagine del tempo planetario, s’apre con riferimento alla temporalità, sia essa espressa con la figura della nodosa curvatura dell’autunno (che però non è ancora abbastanza, è solo approssimazione al più preciso dei rami). Adesso i giorni, leggo, non chiedono che “un onesto divenire” (36). Di qualcosa resta “il solco/o forse il sogno” - 36 (se vi fosse dubbio: “una nuvola scomposta”, 36). 
C’è sentire d’abisso, e si “assorbe/ancora tutto il male/come nutrimento” (41). Salire; accade, poi, tornati, “ritrovare il vuoto e il mare triste di veleni” (43). Una labile via d’uscita sarebbe “Essere di musica, di musica soltanto” in visione. Nel momento in cui ci si abbandona a “non guardare più i tramonti”, ecco, quando v’è remissione dalla “ferocia della sera” (52), “inizio a fiorire”. (46); è questione di essere “casuale narrazione/senza condanne, senza ribellione./Essere congedo/ riuscire a roteare” (54). Come spostarsi muovere? Come le stagioni, aggiungo; ma è questione di riuscirvi, forse d’essere trovati, perché “le belle stelle… lasciano in terra ossa,/piccole ossa che hanno partorito figli” (55) e poi “Spunta dall’asfalto, a tradimento/la crepa di dicembre” (59). Cosa è dicembre? Se “Si sta da soli/nell’artiglio della dolenza” (60), allora è vero, del tempo sento ciò che l’asprezza dice (62); nonostante la casa, o a tali condizioni che la casa pur consente, ci vien rimesso poco. E la gioia? Se vi sia, gratuita com’è, essa accade ma “non sa spiegare mai le sue ragioni” (38).
Un libro del male di vivere? Il negativo è l’inverno, il positivo è l’inverno. In attesa forse che ne vengano giuste  distanze, come recita il titolo dell’ultima parte, che apre con l’immagine del vuoto che abbiamo (che siamo – 63) e chiude con l’immagine onirica di cose primordiali, altissime sulle nuvole (83).
Dal vuoto al sogno. Una meditazione sul senso dell’esistenza; dalle figure del tempo al vuoto di figure. “plasticità del corpo è un’idea distante” (72), senso del senso è “la tua disfatta” (73) e sei tutto il mondo – Schopenhauer avrebbe detto: la volontà stessa – “con il tuo dolore” (73). Il senso è rispecchiarsi negli altri, credo in modo di compassione, perché infatti temo, ma “non delle mie ferite il peso” (75).
Riusciranno le distanze, una volta che si riesca a trovarle e tenerle, a prevalere su una memoria “vigile e crudele”? (65).      
Leggo il tuo libro come  meditazione sulla caducità, quindi su tale ramo preciso del tempo che è l’inverno, e che ci rassomiglia: certo che l’inverno, come accennato, è anche premessa di rinascite – ma qui non vedo tanto questo aspetto – piuttosto, offri l'immagine del lasciare – “ ritrarsi precoce dell’abbraccio”, e nella domanda sul “ gesto perfetto del commiato/ … che noi dobbiamo decifrare” (83).
Nonostante il gesto sia detto perfetto, restiamo sempre a domandarcene il senso.